In occasione dello sciopero mondiale per il clima del 15 marzo condividiamo in seguito l’interessante e puntuale scritto di alcunx ecologistx radicali.
Buona lettura!
Lo scorso ottobre il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha presentato il rapporto speciale sulle conseguenze di un riscaldamento planetario di 1,5°C. Un rapporto che ha richiesto due anni di lavoro e il contributo del fior fiore degli scienziati mondiali (ma soprattutto europei) per produrre 538 pagine con cui si ratifica scientificamente l’esistenza dell'”acqua calda”, ossia che il sistema produttivo tecnologico e industriale occidentale ci sta portando dritti verso il baratro! Lo affermavano già 40 anni fa i primi movimenti ecologisti radicali. Evidentemente il miope mondo scientifico e accademico ha dovuto sbatterci la faccia contro per riuscire a certificarlo.
Un rapporto che fallisce totalmente nel fornire un minimo di analisi seria sulle cause del cambiamento climatico e che, con le dovute ipocrite precauzioni formali, apparecchia la tavola alle tecniche ecocide di geoingegneria, vale a dire a tutta una serie di “rattoppi tecnologici” – al momento assolutamente teorici – che potrebbero avere un impatto altrettanto devastante sugli ecosistemi e sulle comunità. Per esempio l’irrorazione su larga scala nell’atmosfera di composti chimici per respingere i raggi solari (come il progetto Tianhe sull’altopiano tibetano, in fase avanzata di realizzazione, che disseminerà su una superficie estesa quanto la Spagna particolati di ioduro d’argento nell’atmosfera per provare a generare nuvole e precipitazioni), lo stoccaggio di enormi quantità di CO2 in pozzi sotterranei (come la centrale termoelettrica di brindisi, in cui l’anidride carbonica prodotta viene trasportata e stoccata in pozzi in provincia di Piacenza), l’alterazione su grande scala degli oceani per produrre maggiore plancton (un primo test nel 2012 ad opera di una azienda privata ha sversato 100 tonnellate di nanoparticolati di ferro al largo delle isole Galapagos, mentre sempre dal 2012 almeno 110 tonnellate di polvere di ferro sarebbero state sversate al largo delle isole Haida Gwaii, in Canada, per stimolare la crescita di plancton per la “produzione” di salmone),… La geoingegneria è il nuovo rimedio tecnologico in favore del capitalismo, affinché lo sviluppo e la produzione industriale, che hanno causato questo disastro ecologico e climatico, possano continuare a perpetuarsi rimandando il dover fare i conti con la devastazione e il saccheggio del pianeta.
Il rapporto IPCC incolpa l’essere umano del cambiamento climatico, descrivendolo come la conseguenza “delle sue attività”. Eppure per secoli e millenni l’essere umano, soprattutto al di fuori del continente europeo, ha saputo vivere in modi rispettosi degli ecosistemi e in maggiore armonia con l’ambiente circostante. Pensiamo invece che il cambiamento climatico sia piuttosto l’effetto collaterale dello sviluppo industriale capitalista, la controindicazione, di cui hanno sempre negato l’esistenza, dello sviluppo tecnologico e scientifico figlio dell’ideale ormai arrugginito del “Progresso”. Gli animali, le popolazioni indigene e gli ecosistemi su questo pianeta hanno iniziato ad estinguersi con ritmi serrati già da diversi secoli, ovvero con l’avvento in Europa, e la successiva esportazione negli altri continenti, della “civiltà” mercantile e capitalista occidentale. Possedere master universitari, essere riconosciuti come esperti scientifici, venire incaricati di redarre un rapporto intergovernativo e non sapere poi riconoscere questa banalità, non può che far sorgere dubbi sulla neutralità del rapporto. Questo considerando pure che alla sua stesura hanno collaborato due tecnici di ExxonMobil e Saudi Aramco, rispettivamente la seconda e la terza compagnia per emissioni di gas responsabili dell’effetto serra.
Il pianeta viene devastato dalle multinazionali, dal neocolonialismo,dallo sviluppo industriale (occidentale in primis), e dai governi e stati nazione che cercano di rimanere arroccati su posizioni di potere, nello scacchiere internazionale, per il controllo delle “risorse naturali”.
Greta Thunberg, la ragazza svedese oggi celebrata, ha avuto coraggio nell’autodeterminarsi mettendosi in gioco in prima persona contro il cambiamento climatico, scegliendo il proprio metodo. Ma credere davvero che l’appellarsi a chi ci ha portato a questo punto (proprio le persone presenti al Forum Economico Mondiale di Davos a cui si è rivolta: i politici e capi di stato, i think thank, gli scienziati, gli economisti e gli amministratori delegati di multinazionali d’ogni settore) sia la giusta via per trovare soluzioni, lo si può perdonare solo all’ingenuità di una coraggiosa adolescente.
Ridurre la questione della devastazione del pianeta e degli ecosistemi che lo rendono vivo a sterili algoritmi con cui si calcolano i gradi che possiamo ancora permetterci prima di rimetterci come società industriale, è una prospettiva che ci porterà ben poco lontano perché non può che ricondurci agli interessi di governi e multinazionali che già ci abbindolano con il greenwashing, con l’idea che “tutto improvvisamente può diventare ecosostenibile”, anche le stesse industrie petrolchimiche. La questione è molto più complessa, e solo considerandola nella sua complessità possiamo affrontare le reali cause del cambiamento climatico, invece che affidarci a chi vuole arginare i sintomi per continuare come prima. Di mezzo c’è la storia, ci sono le questioni di classe, di razza, di genere e di specie, l’incapacità di riconoscere l’importanza e l’unicità nell’altro non-umano, gli animali e gli ecosistemi che essi popolano.
È vero, “l’effetto serra” è generato principalmente da CO2 e altri gas. Ma questi gas vengono prodotti innanzitutto per soddisfare le esigenze di un sistema economico e politico basato sullo sfruttamento delle persone, degli animali e sulla devastazione degli ecosistemi. Possiamo impegnarci quanto vogliamo, andando al lavoro in bicicletta, smettendo di acquistare buste di plastica, effettuando la separazione dei rifiuti in modo maniacale, diventando perfino tutti/e vegani/e (scelte certo importanti), ma questi gesti da soli non fermeranno la costruzione del TAP nel mare adriatico, non chiuderanno il polo chimico ferrarese, non fermeranno i 450 reattori nucleari tutt’ora attivi nel mondo né i 55 in costruzione, non ridurranno in modo significativo il numero di aerei che sfrecciano sopra le nostre teste e nemmeno svuoteranno davvero i supermercati dal continuo surplus sugli scaffali. Possiamo mettere in pratica mille cambiamenti in positivo nel nostro quotidiano, e ben vengano, ma rimane il fatto che la “democrazia” non ammette l’intralcio nel funzionamento del sistema economico industriale.
Il cambiamento parte da noi, certo! Ma non nel diventare sbirri di noi stessi/e, alimentando questo sistema tecnologico che si sta rivelando una prigione a cielo aperto. Bensì nel ritornare ad affinare lo spirito critico contro chi detiene potere, nello scrutare i problemi alla ricerca della loro radice, nel capire che no, non siamo tutti/e co-responsabili alla stessa maniera in questa devastazione. Le scelte le fanno persone che hanno un nome e cognome e che lavorano per specifiche aziende e istituzioni governative, nei parlamenti e nei laboratori dove si sviluppano le prossime nocività tecnologiche da immettere sul mercato. Smetterla quanto meno di affidarsi a loro è il primo passo. Mettere in discussione lo sviluppo tecno-scientifico industriale, con le sue eterne promesse di un futuro di radiosa abbondanza e di soluzioni a ogni problema, ma che al momento ci ha solo regalato un presente di crescenti tumori, è auspicabile.
Comprendere come la scienza non è neutrale, perché le ricerche sono sempre finanziate sulla base dei loro futuri risultati e lo sviluppo proposto è funzionale proprio a chi le ricerche le ha permesse e finanziate, è un atto di maturità intellettuale. Costruire percorsi solidali e dal basso, autodeterminati, liberi da sfruttamento e oppressioni, e lontani dal controllo istituzionale, può essere una via.
Capire, in fondo, che la vera questione va ben oltre quei 1,5°C che metterebbero in difficoltà unicamente la produzione industriale e la società capitalista, la società che non dovremmo rinunciare a combattere solo per mantenere i privilegi ottenuti sulla pelle dell’altro, continuando a delegare questa responsabilità a chi ci governa.
Di sconvolgimenti climatici ce ne sono stati anche in passato e il pianeta, con gli esseri viventi, ha sempre saputo rigenerarsi.
Fermare il cambiamento climatico significa mettere il bastone tra le ruote alla società che l’ha prodotto. Servono attivistx, servono lotte, non servono scienziati.
alcunx ecologistx radicali
per la liberazione umana, animale e della terra.
Testo scaricabile in pdf