Pensare Ai Gradi – Per Non Essere Più In Grado Di Pensare A Un Altro Mondo Possibile

In occasione dello sciopero mondiale per il clima del 15 marzo condividiamo in seguito l’interessante e puntuale scritto di alcunx ecologistx radicali.

Buona lettura!

Lo scorso ottobre il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha presentato il rapporto speciale sulle conseguenze di un riscaldamento planetario di 1,5°C. Un rapporto che ha richiesto due anni di lavoro e il contributo del fior fiore degli scienziati mondiali (ma soprattutto europei) per produrre 538 pagine con cui si ratifica scientificamente l’esistenza dell'”acqua calda”, ossia che il sistema produttivo tecnologico e industriale occidentale ci sta portando dritti verso il baratro! Lo affermavano già 40 anni fa i primi movimenti ecologisti radicali. Evidentemente il miope mondo scientifico e accademico ha dovuto sbatterci la faccia contro per riuscire a certificarlo.

Un rapporto che fallisce totalmente nel fornire un minimo di analisi seria sulle cause del cambiamento climatico e che, con le dovute ipocrite precauzioni formali, apparecchia la tavola alle tecniche ecocide di geoingegneria, vale a dire a tutta una serie di “rattoppi tecnologici” – al momento assolutamente teorici – che potrebbero avere un impatto altrettanto devastante sugli ecosistemi e sulle comunità. Per esempio l’irrorazione su larga scala nell’atmosfera di composti chimici per respingere i raggi solari (come il progetto Tianhe sull’altopiano tibetano, in fase avanzata di realizzazione, che disseminerà su una superficie estesa quanto la Spagna particolati di ioduro d’argento nell’atmosfera per provare a generare nuvole e precipitazioni), lo stoccaggio di enormi quantità di CO2 in pozzi sotterranei (come la centrale termoelettrica di brindisi, in cui l’anidride carbonica prodotta viene trasportata e stoccata in pozzi in provincia di Piacenza), l’alterazione su grande scala degli oceani per produrre maggiore plancton (un primo test nel 2012 ad opera di una azienda privata ha sversato 100 tonnellate di nanoparticolati di ferro al largo delle isole Galapagos, mentre sempre dal 2012 almeno 110 tonnellate di polvere di ferro sarebbero state sversate al largo delle isole Haida Gwaii, in Canada, per stimolare la crescita di plancton per la “produzione” di salmone),… La geoingegneria è il nuovo rimedio tecnologico in favore del capitalismo, affinché lo sviluppo e la produzione industriale, che hanno causato questo disastro ecologico e climatico, possano continuare a perpetuarsi rimandando il dover fare i conti con la devastazione e il saccheggio del pianeta.

Il rapporto IPCC incolpa l’essere umano del cambiamento climatico, descrivendolo come la conseguenza “delle sue attività”. Eppure per secoli e millenni l’essere umano, soprattutto al di fuori del continente europeo, ha saputo vivere in modi rispettosi degli ecosistemi e in maggiore armonia con l’ambiente circostante. Pensiamo invece che il cambiamento climatico sia piuttosto l’effetto collaterale dello sviluppo industriale capitalista, la controindicazione, di cui hanno sempre negato l’esistenza, dello sviluppo tecnologico e scientifico figlio dell’ideale ormai arrugginito del “Progresso”. Gli animali, le popolazioni indigene e gli ecosistemi su questo pianeta hanno iniziato ad estinguersi con ritmi serrati già da diversi secoli, ovvero con l’avvento in Europa, e la successiva esportazione negli altri continenti, della “civiltà” mercantile e capitalista occidentale. Possedere master universitari, essere riconosciuti come esperti scientifici, venire incaricati di redarre un rapporto intergovernativo e non sapere poi riconoscere questa banalità, non può che far sorgere dubbi sulla neutralità del rapporto. Questo considerando pure che alla sua stesura hanno collaborato due tecnici di ExxonMobil e Saudi Aramco, rispettivamente la seconda e la terza compagnia per emissioni di gas responsabili dell’effetto serra.

Il pianeta viene devastato dalle multinazionali, dal neocolonialismo,dallo sviluppo industriale (occidentale in primis), e dai governi e stati nazione che cercano di rimanere arroccati su posizioni di potere, nello scacchiere internazionale, per il controllo delle “risorse naturali”.

Greta Thunberg, la ragazza svedese oggi celebrata, ha avuto coraggio nell’autodeterminarsi mettendosi in gioco in prima persona contro il cambiamento climatico, scegliendo il proprio metodo. Ma credere davvero che l’appellarsi a chi ci ha portato a questo punto (proprio le persone presenti al Forum Economico Mondiale di Davos a cui si è rivolta: i politici e capi di stato, i think thank, gli scienziati, gli economisti e gli amministratori delegati di multinazionali d’ogni settore) sia la giusta via per trovare soluzioni, lo si può perdonare solo all’ingenuità di una coraggiosa adolescente.

Ridurre la questione della devastazione del pianeta e degli ecosistemi che lo rendono vivo a sterili algoritmi con cui si calcolano i gradi che possiamo ancora permetterci prima di rimetterci come società industriale, è una prospettiva che ci porterà ben poco lontano perché non può che ricondurci agli interessi di governi e multinazionali che già ci abbindolano con il greenwashing, con l’idea che “tutto improvvisamente può diventare ecosostenibile”, anche le stesse industrie petrolchimiche. La questione è molto più complessa, e solo considerandola nella sua complessità possiamo affrontare le reali cause del cambiamento climatico, invece che affidarci a chi vuole arginare i sintomi per continuare come prima. Di mezzo c’è la storia, ci sono le questioni di classe, di razza, di genere e di specie, l’incapacità di riconoscere l’importanza e l’unicità nell’altro non-umano, gli animali e gli ecosistemi che essi popolano.

È vero, “l’effetto serra” è generato principalmente da CO2 e altri gas. Ma questi gas vengono prodotti innanzitutto per soddisfare le esigenze di un sistema economico e politico basato sullo sfruttamento delle persone, degli animali e sulla devastazione degli ecosistemi. Possiamo impegnarci quanto vogliamo, andando al lavoro in bicicletta, smettendo di acquistare buste di plastica, effettuando la separazione dei rifiuti in modo maniacale, diventando perfino tutti/e vegani/e (scelte certo importanti), ma questi gesti da soli non fermeranno la costruzione del TAP nel mare adriatico, non chiuderanno il polo chimico ferrarese, non fermeranno i 450 reattori nucleari tutt’ora attivi nel mondo né i 55 in costruzione, non ridurranno in modo significativo il numero di aerei che sfrecciano sopra le nostre teste e nemmeno svuoteranno davvero i supermercati dal continuo surplus sugli scaffali. Possiamo mettere in pratica mille cambiamenti in positivo nel nostro quotidiano, e ben vengano, ma rimane il fatto che la “democrazia” non ammette l’intralcio nel funzionamento del sistema economico industriale.

Il cambiamento parte da noi, certo! Ma non nel diventare sbirri di noi stessi/e, alimentando questo sistema tecnologico che si sta rivelando una prigione a cielo aperto. Bensì nel ritornare ad affinare lo spirito critico contro chi detiene potere, nello scrutare i problemi alla ricerca della loro radice, nel capire che no, non siamo tutti/e co-responsabili alla stessa maniera in questa devastazione. Le scelte le fanno persone che hanno un nome e cognome e che lavorano per specifiche aziende e istituzioni governative, nei parlamenti e nei laboratori dove si sviluppano le prossime nocività tecnologiche da immettere sul mercato. Smetterla quanto meno di affidarsi a loro è il primo passo. Mettere in discussione lo sviluppo tecno-scientifico industriale, con le sue eterne promesse di un futuro di radiosa abbondanza e di soluzioni a ogni problema, ma che al momento ci ha solo regalato un presente di crescenti tumori, è auspicabile.

Comprendere come la scienza non è neutrale, perché le ricerche sono sempre finanziate sulla base dei loro futuri risultati e lo sviluppo proposto è funzionale proprio a chi le ricerche le ha permesse e finanziate, è un atto di maturità intellettuale. Costruire percorsi solidali e dal basso, autodeterminati, liberi da sfruttamento e oppressioni, e lontani dal controllo istituzionale, può essere una via.

Capire, in fondo, che la vera questione va ben oltre quei 1,5°C che metterebbero in difficoltà unicamente la produzione industriale e la società capitalista, la società che non dovremmo rinunciare a combattere solo per mantenere i privilegi ottenuti sulla pelle dell’altro, continuando a delegare questa responsabilità a chi ci governa.

Di sconvolgimenti climatici ce ne sono stati anche in passato e il pianeta, con gli esseri viventi, ha sempre saputo rigenerarsi.

Fermare il cambiamento climatico significa mettere il bastone tra le ruote alla società che l’ha prodotto. Servono attivistx, servono lotte, non servono scienziati.

 

alcunx ecologistx radicali

per la liberazione umana, animale e della terra.

 

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Resoconto della mia esperienza ad Hambach

Come promesso pubblico il resoconto della mia esperienza ad Hambach e voglio anche ringraziare le persone che, qui in Italia, in questi giorni hanno dimostrato tanto interesse per la questione e mi hanno chiesto informazioni per andare ad Hambach o per organizzare eventi informativi e di raccolta fondi a sostegno della lotta: grazie a tutt* per il supporto, non avrei mai immaginato che una piccola azione da parte mia avrebbe suscitato tanto interesse, e spero che possa, in qualche modo, essere d’aiuto alla lotta.

Sono arrivata a Colonia la mattina di lunedì 17 settembre con l’intenzione di proseguire verso la foresta di Hambach nel pomeriggio: prima di partire per Buir, la stazione più vicina ai vari accampamenti degli attivisti, mi sono recata in un centro sociale, dove avrebbe dovuto esserci un punto informazioni per gli/le attivist*, nella speranza di avere qualche notizia in più (rispetto a quel poco che già sapevo) sui campi e su come raggiungerli, purtroppo a quell’ora non c’era nessuno, dopo un po’ è arrivato un ragazzo, ho chiesto a lui se c’era del materiale su Hambach, mi ha confermato che c’era stato un evento a sostegno della lotta qualche giorno prima, ma al momento non c’era materiale disponibile e probabilmente gli/le attivist* del punto informazioni sarebbero arrivat* in serata.

Non volendo aspettare oltre sono tornata alla stazione centrale di Colonia e ho preso il treno per Buir. Già nella piccola stazione del paese c’erano un paio di furgoni della polizia, lì ho trovato anche alcun* compagn*, anche loro arrivat* in treno: mi sono unita al gruppo per arrivare ai campi (erano quasi le 16). Il primo lungo la strada che porta dalla stazione alla foresta era il Media Hub (c’erano soprattutto camper e furgoni e c’era la possibilità di ricaricare gli apparecchi elettronici), poi c’era il campo Mahnwache costituito da un tavolo con cibo e bevande (praticamente tutto vegano come gli/le attivist* chiedevano ai/lle solidali che portavano i rifornimenti) sotto un gazebo e, dietro di questo, un tendone dove potevano dormire gli/le attivist* che restavano di notte. Lungo tutta la strada c’erano diversi furgoni della polizia che di tanto in tanto andavano verso il Meadow Camp e tornavano indietro.

Per circa un’ora sono rimasta al campo Mahnwache per parlare un po’ con alcun* compagn*, poi mi sono avviata verso il Maedow Camp, l’accampamento più vicino al bosco dove, tra le altre cose, si cucina per gli/le attivist* che resistono nella foresta. Nei dintorni c’erano già diversi gruppi di ragazz* che provavano ad entrare nel Meadow Camp, ma ogni volta venivano allontanati dalla polizia, presente in gran numero con i furgoni e anche con i cavalli (dovevano essere sei o otto le guardie a cavallo).

Insieme ad un gruppo di cinque o sei giovan* ragazz* ho provato anch’io ad avvicinarmi, e ancora una volta siamo stat* mandat* via dai poliziotti. Quindi mi sono allontanata: mi è sembrato che gli/le altr* volessero tentare un percorso alternativo per arrivare al campo, forse passando per la foresta, ma io non conoscevo il luogo e ho preferito fermarmi da sola sotto degli alberi ad osservare con il binocolo i movimenti della polizia e degli/lle attivist* vicino al Meadow Camp: i poliziotti a cavallo stavano per un po’ fermi vicino al campo poi facevano un giro lungo il bordo della foresta e per lo stradone che collega il campo alla strada principale, gli altri poliziotti fermi davanti al campo bloccavano il passaggio dei/lle ragazz* che tentavano di raggiungerlo e spesso anche i poliziotti sui furgoni inseguivano i/le ragazz* per bloccare loro il passaggio. Ho pensato che, da sola o in gruppo non sarei riuscita a passare in quel momento, la cosa migliore sarebbe stata (come anche consigliato sul sito hambachforest.org) tentare di passare di notte quando avrebbe dovuto esserci meno polizia, alcun* attivist* passando di lì mi hanno consigliato la stessa cosa e augurato buona fortuna.

Sono quindi tornata al Mahnwache, con l’idea di riprovare più tardi ma, quella sera, i/le compagn* del campo avevano organizzato un concerto punk proprio su uno stradone lì vicino quindi, oltre alla tanta gente venuta per il live, anche la polizia rimase presente in gran numero fino a tardi, solo le guardie a cavallo se ne erano andate nel frattempo. Sono rimasta per buona parte del live, poi ho deciso di restare per la notte al Mahnwache e di studiare meglio la situazione all’indomani, del resto ero molto stanca per il viaggio della notte prima, in cui avevo dormito poco e male, al Mahnwache non ho montato la mia tenda ma mi sono trovata un piccolo posto sotto il tendone tra i materassini dei/lle altr* compagn* e lì ho dormito circa fino alle 10 della mattina di martedì 18.

Quel giorno verso le 11 ho visto passare per la strada i furgoni che trasportavano i cavalli della polizia, a quell’ora già faceva caldo, mi ha fatto molto male pensare a quei poveri animali costretti a stare fino a sera sotto il sole a portare in giro degli sbirri sorridenti e arroganti. Ho anche avuto modo di osservare meglio le posizioni dei campi e i possibili passaggi che avrei potuto tentare di notte per andare al Meadow Camp, non sembrava difficile: con un po’ di attenzione avrei potuto farcela anche da sola, e ci tenevo veramente tanto ad arrivare al campo: per vedere di persona com’era la situazione, consegnare il cibo che avevo portato per gli/le attivist* e per capire se avessi potuto dare un mio aiuto nel campo o nelle occupazioni nella foresta.

Era una giornata molto ventosa, tanto che abbiamo dovuto rinforzare la tenda del gazebo che stava per staccarsi, ma faceva anche molto caldo e a un certo punto non riuscivo più a stare là sotto, quindi mi sono allontanata dal campo per fare delle passeggiate da sola in un boschetto lì vicino, ero da un po’ seduta sotto un albero quando mi si è avvicinato un ragazzo, anche lui diceva di non sopportare il caldo che c’era al campo, mi ha offerto del cibo e poi mi ha chiesto se volevo andare al Meadow Camp e da là passare poi nella foresta, proprio quella sera infatti sarebbero arrivate delle sue amiche, alcune conoscevano bene i luoghi perché vi erano già state nelle settimane precedenti. Abbiamo deciso che saremmo andat* tutt* assieme quella sera stessa.

Sono poi andata al Media Hub per ricaricare la batteria del telefono e sono tornata al Mahnwache per cenare e conoscere le amiche del ragazzo incontrato nel bosco. Sono stat* tutt* molto gentil* con me e sono rimast* sorpres* del fatto che venissi dall’Italia, oltretutto da sola. Siamo partit* con tutte le nostre cose per il Meadow Camp, ma non era molto tardi e c’erano ancora diversi poliziotti nella zona, ci hanno fermat* ma, a differenza di quello che facevano durante il giorno (non lasciavano passare nessun* a parte poch* not* che portavano cibo e acqua agli/lle occupanti), ci hanno chiesto se avevamo intenzione di dormire nel Meadow Camp e hanno perquisito gli zaini e le borse di tutt*, poi ci hanno lasciat* andare.

Nel Meadow Camp non c’era elettricità e di notte gli/le attivist* usano pile e candele, non c’era neanche più il bagno (distrutto dalla polizia qualche giorno prima). Ho lasciato agli/le occupanti il cibo che avevo portato con me, 3 chili tra cereali e legumi. Abbiamo spento e messo da parte i telefoni per sicurezza e ci siamo sedut* tutt* a terra, in un grande cerchio attorno a un paio di candele, per un’assemblea in cui discutere le prossime azioni di resistenza per cercare di difendere la foresta. Eravamo una cinquantina di persone tra abitanti del Meadow Camp e nuovi arrivat* da Mahnwache, abbiamo deciso di parlare inglese in assemblea affinché anch’io, che capisco meglio l’inglese del tedesco, potessi capire bene ciò di cui avremmo parlato. Abbiamo discusso in modo molto approfondito di varie possibilità: quali strade percorrere, quant* attivist* avrebbero partecipato, dividersi in più gruppi o restare unit*, quali erano le occupazioni che la polizia avrebbe potuto sgomberare per prime, la repressione e le conseguenze che avremmo subito dopo questa azione, e come comportarsi con la polizia nella foresta e nel carcere di Gesa nel caso, molto probabile, che ci avessero arrestat*.

Insieme abbiamo deciso che: 1) saremmo partit* molto presto, verso le 5 di mattina, per cercare di essere nella foresta prima che i macchinari per lo sgombero iniziassero a lavorare; 2) non saremmo passat* per i sentieri ufficiali, per evitare di essere scopert* subito dalla polizia che, con i furgoni, percorre le strade nella foresta anche di notte; 3) avremmo contato su una quarantina di attivist* e avremmo cercato di non dividerci; 4) le occupazioni nella foresta erano tutte a rischio sgombero, ma ci sembrava più probabile che venissero attaccate Cosy Town e Beech Town, rispetto a Lorien, poiché le prime due erano già state prese di mira nei giorni precedenti, e abbiamo optato quindi per il blocco di una strada che porta ad entrambe le occupazioni, così avremmo potuto ostacolare lo sgombero di Cosy Town e Beech Town restando unit* in un unico gruppo; 5) durante il blocco della strada avremmo tenuto un comportamento non provocatorio e di resistenza passiva per cercare il più possibile di evitare un’eventuale risposta violenta da parte dei poliziotti, che già si era manifestata in precedenza (soprattutto nello sgombero delle case sugli alberi e delle altre strutture nella foresta); 6) chi già aveva partecipato ad azioni di questo tipo ci ha informat* del fatto che la polizia avrebbe dato agli/lle attivist* tre avvisi per lasciare libera la strada, avremmo avuto tempo fino ai primi due per alzarci e andare via senza conseguenze, al terzo saremmo stat* trascinat* via con la forza e portat* alla prigione di Gesa dove saremmo rimast* in arresto fino a sera (in genere verso sera i/le prigionier* vengono rilasciat*). Ad ognun* la libertà di decidere se lasciare il blocco entro i primi due avvisi o resistere e subirne le conseguenze, e se portare con se o no i propri documenti per, eventualmente, consegnarli alla polizia al momento dell’arresto, per l’identificazione. I/le compagn* ci hanno consigliato anche, nel caso dell’arresto, di farci dei piccoli tagli sui polpastrelli per evitare l’acquisizione delle impronte digitali, in alternativa si avremmo potuto usare anche della colla, ma ci hanno avvisat* del fatto che in alcuni casi i poliziotti hanno usato dei solventi per rimuovere la colla dalle dita degli/lle attivist* e così sono riusciti e prenderne le impronte.

Finita l’assemblea ho mangiato con alcune delle ragazze del gruppo con cui ero arrivata al Meadow Camp e durante questa “cena a lume di candela” abbiamo parlato di repressione, ecologismo, lotta di liberazione animale e attivismo in Italia e in Germania. Dopo questa interessante discussione ci siamo messe a dormire, chi su una sedia a sdraio, chi su un materasso, io assieme ad altre tre persone su un grande tappeto su cui avevo steso il mio materassino.

Nella notte del 19 settembre, alle 4,30 ci siamo alzat* e verso le 5 siamo entrat* nella foresta: come deciso, per evitare la polizia, non attraverso i percorsi esistenti bensì facendoci strada tra la vegetazione con molta difficoltà nel buio, senza luci: sdraiandoci a terra quando vedevamo passare sui sentieri vicini le auto della polizia e correndo il più velocemente possibile quando dovevamo attraversare quei sentieri. Dopo circa mezz’ora siamo arrivati alla strada che volevamo bloccare sedendoci a terra in un gruppo di 40/50 attivist*. Il nostro blocco è stato immediatamente circondato dalla polizia, che ha chiamato i rinforzi tra cui anche la squadra cinofila che, con i cani, ha controllato la zona circostante (un immane dispiegamento di forze dell’ordine, che non saprei neanche quantificare). Noi attivist* stavamo lì, sedut* in 5 file a bloccare la strada, gridando i nostri slogan: “Hambi Bleibt!” e “We are unstoppable, another world is possible!”, e cantando in tedesco canzoni che io non conosco. A un certo punto, quest* ragazz* bellissim*, hanno iniziato a cantare “Bella Ciao” in tedesco e mi è scoppiato il cuore dall’emozione: sono dalla parte giusta, insieme alle persone migliori che potessi incontrare.

Dopo varie ore in questa situazione (in cui siamo stat* fotografat* e filmat* più volte dalle forze dell’ordine) è arrivato il primo avvertimento della polizia di alzarci e andare via, al terzo saremmo stat* portat* via con la forza e arrestat*. Alcun* attivist* sono andat* dopo il secondo avvertimento, altr* (me compresa), poco più della metà del gruppo ha resistito. E quindi ad un* ad un* siamo stat* trascinat* dai poliziotti prima tra gli alberi al bordo della strada sterrata: ammucchiat* là alcun* attivist* hanno ripreso a cantare “Bella Ciao” in tedesco, mi sono commossa ancora di più e un compagno si è voltato verso di me e mi ha detto: -tu conosci la versione originale perché sei italiana- è impossibile, per me spiegare, le emozioni che ho provato in quel momento. Poi, di nuovo ad un* ad un* ci hanno trascinat* verso i furgoni della polizia, dove siamo stat* perquisit* e portat* su un autobus, erano circa le 10 di mattina. Abbiamo aspettato più di un’ora e mezza perché nel frattempo continuavano le operazioni di sgombero dei villaggi e delle case sugli alberi a Cosy Town e Beech Town e anche alcun* occupanti di questi villaggi sono stat* arrestat* e condott* sull’autobus. Abbiamo approfittato dei tempi di attesa per farci i tagli sulle dita e per metterci la colla. Quindi siamo stat* portat* in prigione a Gesa, il gruppo di supporto agli/lle arrestat* era già là fuori, con il suo stand, ad aspettarci (erano circa le 13). Siamo stat* perquisit* di nuovo, questa volta in maniera più profonda (la polizia ci ha fatt* spogliare completamente per controllarci) e poi siamo stat* divisi in tre celle, due di ragazzi e una di ragazze con dei teli di plastica sui lati tra una cella e l’altra, dei tatami con delle coperte su parte del pavimento delle celle. Ho dormito per ore, dopo che mi sono svegliata eravamo ancora tutt* lì, e in quel momento ho iniziato a preoccuparmi davvero, perché dalla luce del sole che entrava dalle finestre capivo che avevo dormito a lungo e stava facendo sera, e nessun* di noi era stat* rilasciat*. Ad un certo punto, con rabbia, abbiamo ripreso con il grido “Hambi Bleibt!” e con il verso del lupo a cui rispondeva, ululando, il gruppo di supporto all’esterno della prigione. Verso le 20 la polizia ha iniziato a rilasciare gli/le attivist* ad un* ad un*, consegnando ad ognun*, me compresa, una mappa su cui era segnata la zona della foresta e delle aree circostanti in cui ci è stato vietato di andare per i prossimi 3 mesi altrimenti, nel caso un* fosse scopert* nell’area dovrebbe pagare una multa di circa 500 €. Sono stata tra i/le prim* a uscire: i/le compagn* nelle celle in quel momento gridavano: -the best!- erano tutt* colpit* dal fatto che fossi venuta da tanto lontano e che avessi resistito al punto da farmi arrestare, me lo avevano detto anche mentre ci stavano portando a Gesa con l’autobus. Fuori ho trovato il gruppo di supporto che offriva il cibo e si organizzava per gli spostamenti degli/lle arrestat* e per chi, come me, avrebbe avuto bisogno di ospitalità per la notte. Quando ho chiesto ad una ragazza del gruppo se c’era la possibilità di ricaricare la batteria del mio telefono, mi ha risposto: “si ma, prima che tu usi il telefono ti voglio dire una cosa, visto che la notizia sta già circolando vorrei dirtelo di persona: un attivista e giornalista è morto cadendo da un albero”, capivo le sue parole, ma non volevo crederci: poi mi ha abbracciata, è stato un momento terribile, ma ho sentito che la solidarietà e la voglia di resistere per difendere ciò che resta della foresta di Hambach erano ancora forti.

Ho avuto modo di mangiare un pasto caldo e in poco tempo mi hanno trovato un posto dove stare per la notte e un passaggio in macchina per arrivarci. Altr* compagn* hanno deciso di tornare al campo, alcun* avevano ancora delle loro cose da recuperare là, io invece, sapendo di dover ripartire entro domenica 23 per motivi famigliari, ho preferito non rischiare e farmi ospitare per qualche giorno a casa di una solidale.

Sono stata accolta da una donna gentilissima e dal suo bambino che, appena sono arrivata, mi ha offerto dei biscotti e mi ha chiesto se il giorno dopo sarei andata con lui a una manifestazione per Hambach, ovviamente gli ho risposto di sì: non potendo più andare né nei campi né nella foresta era il minimo che potessi fare. Così la sera di giovedì 20 siamo andat* tutt* e tre al corteo ad Aachen. La manifestazione, molto partecipata, è iniziata con un minuto di silenzio per rispetto dell’attivista morto il giorno prima. Tuttavia ci sono state delle contestazioni, a mio avviso comprensibili e condivisibili, quando un politico è intervenuto dichiarandosi contrario al disboscamento nella foresta per l’espansione della miniera di lignite e quando una attivista ha parlato del fatto che a seguito degli ultimi eventi alcuni poliziotti avrebbero dichiarato di non essere contenti del loro lavoro. Del resto quel giorno girava la voce che dopo la morte dell’attivista gli sgomberi sarebbero stati sospesi, invece le attività di sgombero ricominciarono già la mattina del 21 (giorno in cui sono ripartita per l’Italia) quindi, a maggior ragione, le vane promesse di politici e autorità non ci interessano e, la lotta per la difesa di Hambach, la resistenza attraverso l’azione diretta, e la solidarietà dal basso, che non passa attraverso le istituzioni, continueranno: ho visto di persona la forza e la determinazione degli/lle attivist*, ed è uno dei più grandi insegnamenti che ho tratto da questa esperienza.

 

Antispecist* Libertar* Ferrara

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#McRiot Bologna sabato 16 dicembre – mobilitazione anticapitalista contro le multinazionali dello sfruttamento globalizzato

McDonald’s, icona di consumismo e capitalismo, è il simbolo di quell’industria della carne e dei derivati animali che è causa di sfruttamento ambientale, animale e sociale.
La più grande catena di fast food nel mondo è anche il più grande acquirente di carne che, in Italia, gli viene fornita da Inalca (gruppo Cremonini) e Amadori, rispettivamente con 10.000 tonnellate di manzo annue e 9.000 di pollo.
Il business di McDonald’s è basato sulla schiavitù e lo sfruttamento di quei miliardi di animali non umani che ogni anno vengono privati della propria soggettività, ridotti a meri oggetti di guadagno per alcuni e di consumo per altri. Un’industria, quella della carne e dei derivati animali, che da sola ha causato la perdita dell’80% della foresta amazzonica, e che ogni anno contribuisce al surriscaldamento globale con il 51% delle emissioni di gas serra.
L’operato di McDonald’s contribuisce ad allargare quella spaccatura della società che vede circa un miliardo di persone affette da obesità, mentre circa 800 milioni soffrono ancora la fame a causa dello spreco delle principali fonti di sostentamento da parte dell’industria: servono 15 kg di cereali e 15.500 litri d’acqua per produrre un solo kg di carne.
Nel 2016 il Ministero dell’Istruzione italiano ha stretto un accordo con McDonald’s Italia per l’inserimento di 10.000 studenti all’anno all’interno dei fast food nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, di fatto consegnando nelle mani dei padroni la possibilità di avere manodopera gratuita anche per svolgere mansioni che dovrebbero essere svolte dai dipendenti, sono noti casi di studenti sfruttati per pulire i tavoli e i bagni dei ristoranti.
Le politiche pubblicitarie di McDonald’s si rivolgono principalmente ai bambini, consumatori del presente e del futuro, da un lato sfruttati per i guadagni della multinazionale, dall’altro schiavizzati negli stabilimenti dove vengono assemblati i giochi inseriti negli happy meal.
Nel 2000 la City Toys, allora fornitrice di McDonald’s, venne accusata dello sfruttamento di oltre 160 bambini, tra i 12 e i 15 anni, negli stabilimenti presenti nel sud della Cina.
Nel 2010 sono state rilevate violazioni nell’ambito del lavoro minorile e degli standard di sicurezza in un fast food di Baltimora, mentre nel 2014 un affiliato di McDonald’s della Pennsylvania è stato accusato dello sfruttamento di 291 lavoratori, questo a seguito di un’indagine partita nel 2013 che denunciava lo sfruttamento dei lavoratori stranieri.
Questi sono solo alcuni esempi dei crimini condotti da McDonald’s, che però non hanno impedito alla multinazionale di avviare quell’opera di greenwashing funzionale a ripulire la propria immagine, al fine di fornire al consumatore un’impressione di sostenibilità che resta tale. Questo anche attraverso l’inserimento di scelte vegan nei menù nel tentativo di accaparrarsi nuovi clienti, e alla promozione del concetto di “benessere animale” che però si può ritenere tale solo se prevede la liberazione degli stessi.
Il colore dell’insegna non cambia la sostanza: McDonald’s resta sempre il simbolo dello sfruttamento globalizzato.

 

Negli anni ’90 Benetton ha avviato un’opera di accaparramento delle terre in Sud America che gli ha permesso di ottenere il dominio di 960.000 ettari nella Patagonia argentina. Terre strappate al popolo ancestrale Mapuche convertite in pascoli per la schiavitù di 260.000 ovini, 9.700 bovini e 1.000 cavalli, da cui proviene il 10% della lana prodotta da Benetton: circa 1.300.000 kg all’anno. Popolo Mapuche che da circa 30 anni cerca di resistere al regime oppressivo instaurato dal gruppo Benetton grazie alla complicità degli stati argentino e cileno, in quella che è un’area tristemente nota per i/le desaparecidos: persone di cui si sono perse le tracce a seguito dell’arresto da parte dei regimi argentini e cileni. Come accaduto lo scorso 1 agosto 2017, a seguito di un’illegittima irruzione da parte di 100 gendarmi nel Pu lof en resistencia a Cushamen (comunità mapuche in Argentina), a colpi di proiettili di gomma e piombo, si sono perse le tracce di Santiago Maldonado attivista per la liberazione della Terra. Il corpo senza vita di Santiago è stato ritrovato il 17 ottobre nel fiume Chubut. Il 25 novembre un altro attivista, Rafael Nahuel è stato assassinato nel corso dell’ennesimo raid repressivo condotto dalle forze di polizia ai danni del popolo Mapuche.
Tra i “successi” di Benetton va ricordata la vicenda Rana Plaza, fabbrica tessile che realizzava abbigliamento per diversi marchi, il cui crollo nel 2013 causò la morte di oltre 1000 persone, in un paese storicamente colpito da speculazione e sfruttamento di lavoratori/trici sottopagati/e.

 

Per queste ragioni lanciamo una serie di volantinaggi per sabato 16 dicembre a Bologna, a partire dalle ore 15.00 nei pressi del McDonald’s di piazza dell’8 Agosto e a seguire presso il McDonald’s di via Indipendenza angolo Ugo Bassi; e infine, in solidarietà alla resistenza del popolo Mapuche in Patagonia, nei pressi del negozio di Benetton in via Rizzoli 8 e del negozio di Sisley (marchio che appartiene al gruppo Benetton) in piazza Maggiore 3


Animalismo R.I.P.: antispecismo è antifascismo – Contagio Antispecista

Riportiamo di seguito l’articolo pubblicato da Contagio Antispecista, con la speranza che serva a rendere comprensibile l’opera di strumentalizzazione della lotta per la liberazione animale portata avanti da partiti politici e non solo.

L’animalismo è una corrente di pensiero fondata sul rispetto per gli animali (sarebbe meglio parlare di animali non-umani, giàcché anche l’essere umano appartiene al regno animale). (Anarchopedia)

Una definizione da dimenticare, orfana ormai del suo significato originale, smarrita nei meandri della storia di un non-movimento che ad un certo punto del percorso è stato fagocitato da chi ha avuto la capacità di strumentalizzarlo per fini economici o per garantirsi comodi trampolini elettorali.
L’animalismo oggi è diventato la discarica delle infiltrazioni fasciste che hanno trovato terreno fertile in un ambiente arido di contenuti politici (dove vige la regola del “per gli animali va bene tutto”) ma non di partiti che, a loro volta, hanno iniziato ad usarlo per fini elettorali e come bacino dal quale attingere nuovi voti.
Un’escalation degradante la cui origine risale all’epoca della mobilitazione contro Green Hill (nata dal basso in maniera indipendente e spontanea, ma strumentalizzata al culmine della sua espressione dall’on. Brambilla) e che ha visto la sua sublimazione lo scorso 20 maggio, con la costituzione del Movimento Animalista: un partito politico a tutti gli effetti (costola di Forza Italia) che sfrutta la causa per riportare in voga personaggi ormai decaduti.
Un evento tenuto a battesimo anche dal network di VeganOk, onnipresente quando si tratta di offrire visibilità a chi fa dell’incoerenza il proprio biglietto da visita, e quando a tenere banco sono quelle espressioni che possono favorire la manipolazione e mercificazione degli ideali di liberazione a fini commerciali.
L’”onorevole” Brambilla (che a fianco di Berlusconi ha dato vita al suddetto movimento) oltre alla sua risaputa provenienza destroide, che incarna l’esatto contrario dei valori proposti dalla lotta per la liberazione animale, è socia fondatrice della Sotra Coast International: azienda che importa prodotti ittici freschi, congelati e surgelati da Scozia, Norvegia, Canada e Spagna per rivenderli alla grande distribuzione come Carrefour, Coop e Rewe-Billa-Standa, coprendo il 98% del mercato italiano (tratto dal dossier Conoscerli per Isolarli).
E non va dimenticato il caso del canile lager di Lecco, di proprietà dell’on. Brambilla per 10 anni, dove 150 cani venivano tenuti in condizioni precarie all’interno di una struttura non a norma, definitivamente chiuso nel giugno 2012 mentre lei gioiva per il sequestro di Green Hill.
Mentre, sempre nel 2012, ha tenuto a battesimo l’inaugurazione di un’area “naturalistica” all’interno dello zoo delle Cornelle di Valbrembo (BG)
La nuova icona dell’animalismo italiano, oltre alle suddette incoerenze, ha costruito la propria fortuna sullo sfruttamento dei mari e di chi li popola, un aspetto che anni fa l’ha portata a diventare socia di maggioranza di una nota linea di prodotti industriali vegan, IoVeg (ma quasi esclusivamente vegetariani), al fine di ripulirsi l’immagine e garantirsi ulteriori introiti da parte di animalist* disinformati, disinteressati o ingenui.
La deriva qualunquista, oltre alla presenza di associazioni animaliste promotrici del “benessere animale” come Essere Animali e Animal Equality, si arricchisce quindi con quella di partiti politici che completano l’opera di smantellamento dell’animalismo, perché se un tempo tale termine poteva significare il rispetto per gli animali umani e non umani senza distinzione alcuna, ora non rispecchia più tale valore considerando la natura prevaricatrice delle istituzioni citate.
Da qui la necessità di fare un’accurata distinzione tra animalismo (che non fa necessariamente rima con veganismo né, tanto meno, con antispecismo) e la lotta per la liberazione animale.
In tempi anacronistici come quelli in cui viviamo, dove tutto o quasi diventa mercato, simbolo senz’anima un tanto al chilo, rivendicare l’origine politica di quella A cerchiata (al tempo stesso emblema delle pratiche di azione diretta per la liberazione animale ma anche terreno comune di lotta di quell’umanità che non si arrende davanti ad ogni forma di oppressione, discriminazione e sfruttamento) significa tracciare una linea invalicabile tra chi vuole smantellare le strutture di potere e chi intende strumentalizzare il vessillo animalista per replicare modelli di dominio sulla pelle degli animali, umani e non umani.
Se ad una prima impressione la costituzione del Movimento Animalista può destare preoccupazione, a dire il vero permette di facilitare la distinzione tra chi promuove un animalismo di facciata che strizza l’occhio alle istituzioni, alle infiltrazioni fasciste e partitiche, e chi invece conduce la lotta per la liberazione totale, sostenendo quell’antispecismo politico che opera dal basso.
Più volte in questi ultimi anni da parte di singol* e gruppi antispecisti è stata espressa la necessità, non che la volontà, di prendere le distanze da ciò che l’animalismo ormai rappresenta, per evitare incomprensioni e scrollarsi di dosso quelle contraddizioni anacronistiche che impediscono il definitivo decollo e affermazione della lotta per la Liberazione Animale.

Antispecismo è Antifascismo

Per dovere di cronaca riportiamo di seguito l’elenco delle associazioni che insieme a Forza Italia hanno contribuito alla fondazione del Movimento Animalista precisando, però, che alcune stanno ritrattando questa decisione prendendovi le distanze.
Non pervenuti invece quei gruppi come Centopercento Animalisti, Iene Vegane, Meta, Fronte Animalista appartenenti comunque a correnti di destra.

Enpa, Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente, Oipa, Gaia Animali & Ambiente, Leal, Animalisti Italiani, SOS Levrieri, Anima Equina, Banco Italiano Zoologico, Animalisti onlus, Cani e Mici per Amici, Arcadia Onlus, Una Cuccia per la Vita, Amico Peloso, Lida, Grandi Amici Onlus, I Pelosetti, Zampa su Zampa, Io non ti Mangio, Anpana,I Ca’ de Castiu´, Como Scodinzola, ChiaraMilia, Salva un Cane, Animal Emergency Europe, Emi, Amici di Fido, Una Copertina per Snoopy, International Animal Protection League Italia, Il Mio Amico, Uniti per gli Animali, Diamoci La Zampa, Gagi Greyhard Adopt Center, Gli Angeli Randagi del Vesuvio, Animal Liberation, Una Zampa per la Vita, Ialp, Anime Randagie, Amici di Fiocco, Educanamente, BauBau Village, Amici per i Baffi, Associazione Animalista per i Randagi, Animalissimi Onlus, L’Altra Zampa, Felici nella Coda, Save The Dog, Animal Asian Foundation, Proteggiamo i Nostri Amici Animali in Maremma Onlus, Gatti Mammoni, Liv, Branco Misto ASD Bolzano, Ghismo Onlus.


SERATA BENEFIT PER AGRIPUNK – Domenica 29 gennaio a Ferrara

Agripunk è un rifugio per animali di qualunque specie, che si trova ad Ambra in Toscana.
Il progetto è nato dalla riconversione di un ex-allevamento intensivo di tacchini da carne, per dare vita alla trasformazione di un luogo di prigionia e sfruttamento in un luogo di libertà e rispetto.
Agripunk Onlus è un’associazione senza scopo di lucro per la tutela e la salvaguardia della natura e dell’ambiente.

Domenica 29 gennaio, presso la gastronomia La Vegana (via Carlo Cattaneo 90/A, Ferrara), si terrà una serata benefit per sostenere il progetto di Agripunk.
Dalle 18.00 avremo modo di gustare un ottimo buffet ad offerta libera preparato da La Vegana e alle 19.30 si terrà la presentazione del rifugio a cura dell’associazione Agripunk Onlus.

Il ricavato della serata sarà interamente devoluto ad Agripunk.
È gradita la prenotazione al numero 342 540 0700.

Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/1849896841915496/

Pagina Facebook Agripunk Onlus: https://www.facebook.com/agripunk.it/

Sito Agripunk Onlus: www.agripunk.it/

Pagina Facebook La Vegana: https://www.facebook.com/laveganaferrara/


“Tanto rumore per nulla – Note sul referendum costituzionale”

Riceviamo e pubblichiamo il testo dell’interessante opuscolo informativo della Federazione Anarchica Torinese sul referendum del 4 dicembre “Tanto rumore per nulla”. L’opuscolo in formato pdf è scaricabile qui.

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“Tanto rumore per nulla – Note sul referendum costituzionale” Federazione Anarchica Torinese

La partita reale e quella simbolica

I miti fondatori, quelli che cementano l’immaginario, hanno lo straordinario vantaggio di non necessitare dell’onere della prova.
La Costituzione nata dalla Resistenza è uno di questi. I sostenitori del rigetto della riforma costituzionale sulla quale si terrà il 4 dicembre un referendum confermativo, ripetono come un mantra le parole di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano (maiuscolo!) per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione.”

Questa frase coagula un nucleo emozionale potente. L’identificazione tra la Resistenza (con la maiuscola) e la Costituzione repubblicana trasforma il no al Referendum in una crociata antifascista. Chi non partecipa al gioco è considerato un nemico o un ignavo incapace di cogliere il momento cruciale.

Difficile, anche se non impossibile, smontare questa narrazione, perché essa trae il proprio alimento da un sentire diffuso, difficile da interrogare con le mere armi della critica, nei fatti impermeabile perché si nutre di una Resistenza ormai mitica e, quindi, storicamente inattingibile.

Tuttavia l’epopea partigiana è ed è stata nocciolo sentimentale di tante esperienze diverse, da consentire, anche sul piano inclinato della retorica, di cogliere linee di cesura, capaci di incrinare il Mito, facendo riemergere se non la storia, una memoria non condivisa e pacificata. Quella della lotta antifascista dagli anni Venti alla seconda metà degli anni Quaranta, quella di chi, riconoscendosi nella componente rivoluzionaria dell’epopea partigiana, ha intrecciato i fili delle lotte di ieri con quelle di oggi.

Una parte importante di chi ha combattuto il fascismo e la dittatura non si sarebbe potuta riconoscere nella frase di Calamandrei, perché quei partigiani non erano “Italiani [che volevano] riscattare la libertà e la dignità della nazione”, ma internazionalisti che lottavano perché la resistenza al fascismo si trasformasse in rivoluzione.
Nessuno di loro si sarebbe identificato tra i padri e le madri della Repubblica nata dalla Resistenza, perché nessuno di loro voleva una società di classe, perché molti rigettavano il patriottismo, lo stato e la sua pretesa di avocare a se il monopolio della violenza.
Come è finita è noto. La Resistenza venne disarmata e poi imbalsamata nella guerra di liberazione nazionale, i partigiani che continuarono la lotta dopo il 25 aprile, quelli che l’avevano iniziata ben prima dell’8 settembre 1943, finirono in carcere, mentre Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e ministro della giustizia, firmava l’amnistia per i fascisti. Tutto cambiò, ma molto di quello che contava rimase come prima.
La lunga teoria di stragi di Stato che ha segnato il percorso della Repubblica nata dalla Resistenza, ne è il segno, perché la stessa funzione pacificatrice della socialdemocrazia in salsa PCI, stentò ad imporsi in un paese, dove forte era la tensione a volere di più che la fine della guerra e del fascismo, in un paese dove i fascisti, sconfitti, ma saldamente ai loro posti nei gangli della macchina statale, continuarono ad operare.

Ogni riferimento ideale alla Resistenza che non ne colga le fratture si trasforma in mero espediente retorico utile all’ammucchiata referendaria, del tutto vano in una prospettiva di radicale trasformazione sociale.

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A Torino il Procuratore Capo Spataro, successo a Caselli nel perseguire i resistenti della Libera Repubblica della Maddalena, si è schierato apertamente per il no alla riforma costituzionale. Anche l’Anpi che, tranne in poche sezioni, ha condannato i No Tav, ha fatto la stessa scelta.
Le linee di cesura erano chiare nel 1945, lo sono ancora oggi per chi le vuole vedere.

Alla Maddalena di Chiomonte nella primavera del 2011 visse una Libera Repubblica, il cui richiamo ideale alle repubbliche partigiane era forte. E forte era la consapevolezza che la sottrazione di una porzione di territorio al controllo dello Stato e alle brame dei padroni amici del governo era un gesto sovversivo, radicale. Chi sedeva sulle poltrone di palazzo Chigi non poteva permetterlo: in gioco c’era ben più che un lucroso affare di treni. La libera Repubblica di Chiomonte era un avamposto resistente di pochi chilometri in mezzo ai monti, ma alludeva sul piano simbolico e reale, alla possibilità che si potesse fare a meno dello Stato, del capitalismo, della polizia, dell’esercito.

Il primo gesto della polizia dopo lo sgombero e l’occupazione fu issare alta sul piazzale del museo archeologico, vuotato e trasformato in bivacco per le truppe di occupazione, una bandiera tricolore, simbolo della Repubblica nata dalla Resistenza.

A cinque anni da quella primavera di lotta, un movimento in chiara difficoltà, si rifugia nella battaglia referendaria, accanto al capo della Procura di Torino. E a tanti altri, persino peggiori.

Mala tempora currunt.

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La Costituzione più bella del mondo?

La Costituzione della Repubblica Italiana difende la proprietà privata, affida allo Stato il monopolio legittimo della violenza, garantito da polizia e forze armate, prevede tribunali, carceri, guerre, confini…
E la “nuova” Costituzione sottoposta a referendum confermativo? Anche!

Nei fatti la distanza tra la costituzione formale e quella reale è sempre stata grande. L’Italia è in guerra da trentacinque anni, senza che queste guerre siano mai state proclamate.
Di fronte alla durezza di questo fatto, che importanza ha lo snellimento della procedura per dichiarare guerra? Si tratta di un semplice adeguamento della Costituzione formale a quella reale.

Le leggi, quelle generali che definiscono l’ordinamento dello Stati, come quelle ordinarie, sono spesso niente più che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Non solo. La codifica in legge delle istanze dei movimenti popolari imbriglia le tensioni che si sono espresse con forza dirompente, rinchiudendole in una gabbia normativa.

Il job act renziano è il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.

Le donne (e gli uomini) che in Italia si sono battuti per la depenalizzazione dell’aborto e per la libera maternità, non volevano una libertà monca, delimitata da una legge, frutto del compromesso tra il mondo cattolico e le istanze libertarie e laiche, che attraversavano potentemente la società.
Oggi scegliere è sempre più difficile, perché i pesanti limiti di quella legge vengono usati contro la libertà femminile, senza che vi sia una significativa spinta da parte dei movimenti.

Sono solo due esempi della concretezza delle argomentazioni di chi si sente estraneo ed ostile alla partita referendaria, perché l’illusione che la battaglia sulla Costituzione sia di quelle decisive nasconde una realtà che andrebbe affrontata nella sua crudezza.

L’attuale governo – come quelli che l’hanno preceduto – ha affondato le lame nel corpo sociale con la facilità con cui il coltello si infila nel burro.
La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lucidando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.

Il gioco politico

Se il richiamo al mito è il cemento sentimentale, la caduta del governo, che ha profanato la sacralità della Resistenza, diviene l’obiettivo concreto, sul quale coagulare un fronte ampio.
Una sinistra in cerca d’autore ha deciso di giocare la carta referendaria per tentare di uscire dal pantano in cui si trova da anni. Quel che resta della Sinistra radicale punta su un rilancio che la ri-proietti nella sfera istituzionale. I post-autonomi invece mirano a candidarsi a punto di riferimento di una galassia extraistituzionale, che possa godere di qualche patronage da parte di un governo pentastellato.
Il fronte del No è attraversato da numerose linee di cesura, che tuttavia, si ricompongono intorno all’obiettivo. Leghisti, fascisti, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.

Renzi, tradito dalla propria arroganza, ha gettato sul piatto la propria poltrona di primo ministro, lanciandosi nella bocca del leone. E’ riuscito a coagulare contro di se un variegato fronte di opposizione, non ultima la minoranza del PD, che vorrebbe indebolirlo, ma non ha interesse a farlo cadere.
Nei fatti la partita interna al PD è di gran lunga la più interessante, perché mostra nella sua crudezza, la feroce lotta di potere, nella quale la riforma costituzionale è solo un feticcio. La minoranza del PD, che in parlamento è però maggioranza, non può permettersi di far cadere direttamente il governo, ma sa di essere destinata scomparire se la legge elettorale non cambierà, per cui si sta giocando le ultime carte prima di una possibile scissione.
Renzi sa che probabilmente perderà e naviga a vista per restare a galla.
Le destre, messe nell’angolo dalla perdurante anomalia grillina, che in parte ne ha mutuato i programmi e gli obiettivi, sperano in un rilancio, forti del vento che spira forte dall’Europa, che tuttavia potrebbe continuare a gonfiare le vele dei penta stellati.

Gli ingredienti della propaganda per il no sociale sono un misto di buoni sentimenti e richiami al realismo. Un minestrone strano ma efficace, visti gli ampi consensi che vi si sono coagulati intorno.

Nei fatti un espediente per restare a loro volta a galla, un espediente che rischia di distogliere l’attenzione dall’urgenza della questione sociale, tentando di incanalarne le tensioni in una partita referendaria, dove si decide se mantenere o meno il bicameralismo.
Gli antagonisti hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista, razzista.

Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia.
Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.
La paura fa Novanta, ma la paura è, questa sì, l’arma dell’estrema destra, del fascismo che ritorna, del grande complotto contro la compagine grillina.

D’altra parte il rischio, forse consapevole, del caos sistemico, li attrae, come qualche anno fa i forconi tricolori per le strade di Torino. Camminare sul filo è eccitante ma rischioso.
Imitare Togliatti e il vecchio PCI è la tentazione ricorrente degli antagonisti del terzo millennio, accecati dalla follia del ritorno di un passato che (fortunatamente) non ritorna. Giocano la loro partita tra penetrazione nelle cooperative, festival come quello dell’Unità, flirt istituzionali e movimenti sociali.
Su quest’insieme eterogeneo di pratiche imprimono il marchio del realismo contro l’utopia vana, “ideologica”, di chi non accetta il gioco e sceglie il rifiuto.
Il rifiuto di cacciare Renzi per far governare Di Maio. O Salvini, Berlusconi…
Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!

Tra chi governa o aspira a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle, nella chiara consapevolezza che la strada è tutta in salita, irta di ostacoli.
Nell’altrettanto chiara consapevolezza che l’urgenza del momento, non consente scappatoie.

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Noi non vogliamo né padroni, né padrini. Non vogliamo il caos. Sappiamo che percorsi di libertà, di uguaglianza di mutuo appoggio si nutrono dell’autonomia del corpo sociale dal quadro politico istituzionale, perché solo nella pratica si sedimenta l’immaginario che costruisce, giorno dopo giorno, nel conflitto e nella sottrazione dall’istituito, il mondo che vogliamo.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

Uno sguardo oltre il giardino incantato

Il referendum, come ogni consultazione elettorale si regge sul principio della delega in bianco.
A livello pratico e teorico, ogni volta che si va alle urne per esprimersi su quesiti preconfezionati, si rafforza l’opinione che una maggioranza della popolazione possa e debba decidere per tutti. Ne consegue che la maggioranza – di quelli che partecipano voto – può imporre leggi, celebrando la forza del numero che affossa il punto di vista individuale, esaltando l’omologazione culturale e sociale, annullando il valore delle differenze, costituendo una dittatura della maggioranza sull’intera società.

Noi vogliamo costruire una società di liberi ed eguali, convinti che l’interesse e il benessere di ciascuno di noi possa essere perseguito con l’azione diretta e la lotta autogestita. I referendum, abrogativi o confermativi, non sono strumenti di decisione diretta ma rimandano comunque la definizione delle norme al parlamento, che può anche neutralizzarli del tutto, persino quando riescono a superare il quorum.
Il referendum sull’acqua pubblica o, meglio, “statale”, il finanziamento ai partiti, l’abolizione del Ministero dell’agricoltura, sono buoni esempi dell’inutilità di questo strumento, che finisce con alimentare solo l’illusione democratica.

Uno specchietto per le allodole che oggi più che mai serve ad annacquare e frammentare le lotte sociali tentando di incanalarle tutte alle urne, sottraendo forza alla spinta popolare.

Un si o un no alla riforma costituzionale non cambia nulla per chi è senza casa, senza lavoro, senza futuro. C’è una sola possibilità concreta: rovesciare il tavolo dove si gioca con dadi truccati e puntare sull’azione diretta senza deleghe. I movimenti di lotta già ora agiscono una sottrazione conflittuale all’esistente nelle lotte territoriali, mettendo concretamente in discussione il principio della proprietà privata e l’esistenza stessa dell’apparato statale, facendo scelte radicali ed intrinsecamente libertarie.


Solidarietà a tutt* i e le compagn* arrestat* per gli scontri della Magliana

Diffondiamo il comunicato di alcuni antifascisti pontini a sostegno dei/lle compagn* arrestat* per gli scontri della Magliana:

Solidarietà a tutt* i e le compagn* arrestat* per gli scontri della Magliana.

Sabato 5 novembre nel quartiere Della Magliana a Roma gli sbirri a difesa dei loro amici camerati hanno sfogato tutta la loro rabbia verso chi si oppone alla sempre più arrogante e indisturbata presenza fascista nei quartieri. Un centinaio di compagn* ha tentato di impedire il miserabile presidio di Forza Nuova contro i migranti (“Magliana come Goro”) in un quartiere popolare con un passato di lotte sociali in cui recentemente Casapound ha aperto una nuova sede.

Tutto è iniziato quando gli antifascisti hanno cercato di muoversi verso i Merdanuovisti e sono stati bloccati dapprima da una pioggia di CS e successivamente caricati. Dopo un primo tentativo di resistenza sono partiti i caroselli con auto e blindati che cercavano di investire i manifestanti. Divers* compagn* sono stat* brutalmente picchiat* in mezzo alla strada. Una volta disperso il corteo è cominciata una vera e propria caccia all’uomo che si è protratta fin dentro i portoni delle abitazioni e dei negozi del quartiere, dove i/le manifestanti hanno cercato riparo. I bravi cittadini(sti) hanno dato il loro contributo alla democrazia, bloccando le persone in fuga o segnalando agli sbirri i loro nascondigli.
Il triste bilancio della giornata è stato di oltre 50 fermati, che sono stati tenuti per 10 ore nelle celle del Centro di Identificazione di Tor San Lorenzo, con tutto lo squallido corollario di foto segnaletiche a volto scoperto e coperto, foto a scarpe e tatuaggi, insulti e intimidazioni. Per 9 compagn* è stato disposto l’arresto, si trovano tutt’ora nelle carceri di Regina Coeli e Rebibbia.

La repressione nei confronti dell’antifascismo è ormai lampante. Mentre i topi di fogna prendono sempre più piede nelle strade e nei quartieri delle nostre città a colpi di becero proselitismo populista, alimentando la paranoia securitaria e fomentando la lotta tra gli sfruttati.

Mai come ora è necessario autorganizzarsi in maniera più efficace contro queste carogne, ribadire con forza la nostra presenza nelle strade e nelle piazze, elaborare strategie di intervento sul territorio che siano in grado di impedire che attecchiscano i germi della xenofobia, della paura e della barbarie sociale che sono, da sempre, il brodo di coltura del fascismo.

Mai più fascismo!
Libertà per tutt* gli/le arrestat*!

Alcuni antifascisti pontini.

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Solidarietà al movimento #NoDAPL dopo il nuovo attacco del 2 novembre

Ormai da mesi la popolazione Sioux di Standing Rock e i/le solidali del movimento #NoDAPL  si oppongono alla costruzione del Dakota Access Pipeline, un oleodotto che connetterà le aree di produzione di Bakken e Three Forks in North Dakota ad oleodotti che già esistono nell’Illinois. Secondo il progetto attuale l’oleodotto dovrebbe passare attraverso le colline in cui vi sono sepolti gli antenati degli Sioux, distruggendo così un luogo sacro per la popolazione di Standing Rock, oltre a mettere a rischio le risorse idriche della zona, che andrebbero invece preservate in quanto patrimonio di cui tutt* dovrebbero poter usufruire.

Mercoledì 2 novembre circa un centinaio di poliziotti ha attaccato i manifestanti, prima distruggendo un ponte che avrebbe permesso ai manifestanti di attraversare Cannonball River per andare a pregare sulla collina e minacciando di arrestare chiunque avesse provato ad attraversare il fiume; poi utilizzando spray urticanti, gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma[1]. Alcuni manifestanti sono stati feriti, alcuni sputavano sangue dopo essere stati colpiti da proiettili di gomma[2], alcuni hanno sofferto di ipotermia cadendo e restando nelle acque fredde del fiume. Una persona è stata poi arrestata per aver trasportato una canoa nell’attraversamento del fiume[ 3].

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Fotografia di Sacheen Seitcham

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Fotografia di Conor Handley

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Fotografia di Conor Handley

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Fotografia di Jenene Hampton

Nei giorni scorsi circa 140 manifestanti sono stati accusati di intrusione e arrestati per aver tentato di proteggere un territorio che, nel 1851 attraverso il Trattato di Fort Laramie, era stato assegnato alle tribù native. Questo a dimostrazione di come leggi e trattati vengono disattesi per favorire gli interessi delle multinazionali come Energy Transfer Partners[4].

E mentre il Presidente Obama sostiene di essere disposto a lavorare con la sezione dell’esercito statunitense specializzata in ingegneria per esaminare la possibilità di deviare il percorso dell’oleodotto in modo da salvare i luoghi sacri di Standing Rock[5], il movimento #NoDAPL continua a resistere per proteggere l’acqua e l’ambiente oltre che per salvare i luoghi sacri delle popolazioni native.

Solidarietà verso i popoli che da più di 500 anni resistono contro la colonizzazione e contro l’oppressione dello stato.

 

Riferimenti:

[1] BREAKING: Law Enforcement DESTROYED a bridge, shot people with rubber bullets, bean bags and maced them http://indigenousamerican.com/2016/11/02/breaking-law-enforcement-destroyed-a-bridge-police-shot-people-with-rubber-bullets-bean-bags-and-maced-them/

[2] https://www.facebook.com/conor.handley.5/posts/10205833423029893?pnref=story

[3] Police Attack #NoDAPL Water Protectors Defending Scred Sites http://www.unicornriot.ninja/?p=10600

[4] https://www.facebook.com/fusionmedianetwork/videos/1627052560654049/?pnref=story

[5] Obama Just Announced He’s Going to Save Standing Rock By Rerouting Pipeline  http://theindigenouspeople.com/2016/11/02/obama-just-announced-hes-going-to-save-standing-rock-by-rerouting-pipeline/


8 punti per riflettere su veganismo e anarchia

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Immagine di Hartmut Kiewert

 

1. Anarchismo impoverito

L’anarchismo, per me, è una lotta contro tutte le forme di dominio. È un’idea semplice e bellissima che aiuta a mettere in discussione ogni prassi oppressiva.

Ma le nostre relazioni di soggiogamento di miliardi di altre specie sulla Terra è una prassi con cui pochi sembrano essere in disaccordo; le altre specie non solo sono incapaci di comunicare a noi la loro esperienza, ma mettere in discussione significa sfidare abitudini consolidate e visioni del mondo. Se vogliamo essere coerenti con la nostra politica, allora non c’è modo in cui possiamo continuare a ignorare l’impatto che il nostro antropocentrismo
(la centralità dell’essere umano) sta avendo sul resto di questo pianeta.

Eppure, solo perché molti di noi sono coinvolti non significa che siamo caricati di un qualche tipo di “peccato originale”. Tutt’altro: la bellezza e il potere dell’anarchismo è che spinge tutti noi a vivere vite che sono più giuste, amorevoli, significative, soddisfacenti e collettivamente libere. Quindi quando parliamo di specismo, lungi dall’essere altezzosi, dovremmo abbracciare la sfida che pone, approfondire la questione, e fare ciò che possiamo per cambiare l’avvilente stato delle cose.

2. Alienazione dalla terra

Attraverso la civilizzazione e la conquista, le insaziabili culture capitaliste hanno alienato la maggior parte della popolazione mondiale dalle ecologie che sono state i sistemi di supporto della vita della nostra specie durante la sua esistenza. Questo a sua volta ci ha desensibilizzati dalla schiavitù di massa di fasce di forme di vita non-umane al servizio degli umani e del capitale. Tuttavia, dal momento che questa alienazione è tutto ciò che molti di noi, abitanti delle città, abbiamo mai conosciuto, non apprezziamo veramente ciò che è stato perso. Se questo ti sembra vero, allora passa un po’ di tempo di qualità con altri animali; osserva cosa fanno, come interagiscono gli uni con gli altri. Leggi dell’addomesticazione della natura selvaggia per l’espansione del capitalismo, e impara del ruolo chiave che l’agricocoltura animale gioca nel trasformare la foresta piena di vita nei campi di monocolture che al giorno d’oggi costituiscono la nostra campagna.

3. Gli animali stanno alla base di un cumulo di letame

La portata, l’intensità e la normalizzazione dello sfruttamento e della sofferenza degli animali sono più grandi rispetto a una qualunque di queste nella nostra specie. Se non sei d’accordo (come di solito succede) semplicemente non stai prestando attentione. Centinaia se non migliaia di intere specie sono state schiavizzate per il capitalismo, venendo imprigionate, manipolate, allevate selettivamente, usate per esperimenti, usate come macchine riproduttive e uccise per la nostra soddisfazione, profitto e divertimento.

Ogni anno, nel Regno Unito circa 1.000 milioni di animali vengono allevati e uccisi per diventare “cibo”, mentre nello stesso periodo di tempo gli avanzi equivalenti a 86 milioni di polli vengono buttati via. Durante la vita, la vasta maggioranza dei polli sono stipati in capanni con un completo disprezzo dei loro bisogni e desideri di creature viventi, prima di essere uccisi a 6-7 settimane (in natura, vivono per circa 7 anni). L’allevamento selettivo di polli da carne comporta che sono incapaci di sostenere il loro peso e passano dal 76 all’86% del loro tempo distesi; molti muoiono di sete o di fame. La lettiera sporca si solidifica attorno alle loro zampe causando ulcere dolorose. Nel caso delle galline ovaiole, la maggioranza viene tenuta in gabbie, lo stress inteso delle loro vite miserabili può portare all’autolesionismo e al cannibalismo, perciò a molte viene tagliato il becco – senza anestesia – per ridurre questo rischio. Mentre i loro antenati selvatici deponevano 12-20 uova all’anno, la schiavitù ad opera dell’uomo ha prodotto una moderna macchina riproduttiva che depone fino a 300 all’anno per il piacere e per il profitto. Questo è per non dire niente dell’industria casearia e degli allevamenti di suini, bovini da carne e pesci. Quegli animali non saranno capaci di twittare sulla loro miseria (non c’è prova fino ad ora che i maiali siano così sciocchi da passare il loro tempo sui social media): leggete voi stessi riguardo a ciò.

Intanto, ogni anno solo nel Regno Unito circa 4 milioni di animali sono sottoposti a “ricerca”, nel nome della scienza; esperimenti per testare nuovi prodotti come medicinali e sostanze chimiche (detersivi, plastiche, pesticidi, additivi alimentari, ecc.) e test militari. Le più prestigiose università del Regno Unito continuano a imprigionare animali e a sperimentare sugli stessi animali per molti anni incessantemente. Questi includono perversi esperimenti invasivi che alterano fisicamente e psicologicamente i primati (ad esempio impiantando elettrodi nei loro crani, rimuovendo parti dei loro cervelli, studiando gli effetti dello stress e del dolore inflitti deliberatamente, e così via).

Oltre ai loro usi per il “cibo” e per la “scienza”, c’è l’allevamento di animali da compagnia per il piacere umano (migliaia dei quali vengono successivamente tenuti nei rifugi del Regno Unito in un qualsiasi momento dopo essere stati presi prevalentemente da “proprietari” incompetenti), e l’uso di animali per fare soldi in un mucchio di altre industrie (gare, zoo, circhi, ecc.).

4. La difensiva sostiene il dominio

Tutti i sistemi di oppressione sono supportati da atteggiamenti di difesa, giustificazioni, banalizzazioni e negazioni. A volte queste affermazioni possono essere abbastanza imparziali, ma molto più spesso le persone semplicemente reagiscono al sentirsi attaccate e rispondono da una posizione egoista di autoconservazione. Un’etica anarchica dovrebbe derivare da un desiderio di liberazione individuale e collettiva, quindi mi piace pensare che quando un compagno mette alla prova il mio comportamento, io metto da parte il mio orgoglio ferito per un momento e almeno do all’argomento la considerazione che merita.

Eppure gli argomenti sollevati contro lo specismo vengono ripetutamente presi in giro, banalizzati e ignorati, che è sia una grande mancanza di rispetto verso gli altri animali che verso i compagni. Ok, i vegani puritani che fanno sentire in colpa quelli che mangiano un occasionale panino col formaggio non sono d’aiuto, ma solo i compagni più pigri e meno impegnati possono attribuire i loro comportamenti antropocentrici di merda allo scontro con la Polizia Vegana.

5. L’abuso degli animali è inseparabile dal patriarcato

Per me l’abuso degli animali è nella stessa gamma di misogenia, omofobia, razzismo, e dell’abuso dei bambini, degli anziani o dei disabili. Le affermazioni che queste analogie sono razziste/sessiste o discriminano i disabili semplicemente evidenzia lo specismo intrinseco di una posizione come questa, come possiamo infatti fare eccezione per altri esseri senzienti? I principi di base ci sono: violenza perpetrata per piacere o per guadagno dai “forti” contro i “deboli”.

In una casa in periferia, una donna è minacciata dal pugno di un uomo; da qualche parte in un’altra un criceto viene buttato in un gabinetto: entrambi sono rifiuti inutili agli occhi di quelli che esercitano relazioni di possesso su di loro. Nei bagni di un locale alla moda un pesce Betta splendens giace immobile e senza vita sul fondo ghiaioso del suo acquario spoglio; a Croydon, un amico rifugiato afgano aspetta continuamente da anni per una parola dagli avari burocrati del Ministero dell’Interno: entrambi ridotti a meri numeri e oggetti da quelli con il denaro in mente.

Come può una persona non riuscire a vedere queste questioni come essenzialmente la stessa, o rifiutare una e giustificare un’altra?

Nel 1901, l’anarchico Elisée Reclus descrisse come da giovane ha lottato contro la quasi schiacciante pressione per la conformità contro il suo stile di vita vegetariano, “i genitori, gli educatori ufficiali e informali, e i dottori, per non menzionare quella persona onnipotente chiamata “tutti”, tutti lavorano insieme per indurire il carattere del bambino in relazione a questa “carne sui piedi”…” Più di un secolo dopo, la cultura del consumo di carne e latticini è ancora sostenuta dalla derisione e dalla pressione sociale. È in particolare connessa con il maschilismo (ad esempio sei un pappamolle borghese se non riesci a sopportare un po’ di fegato), e il marketing che sfrutta le insicurezze maschili, anche se il 99% di questo atteggiarsi da macho ruota attorno alla carne acquistata pateticamente dai gruppi di distribuzione come Tesco, piuttosto che da creature che sono state cacciate (vedi “The Sexual Politics of Meat” di Carol J. Adams per una discussione più approfondita sul tema). E se vuoi affermarti come un abile cacciatore, posso pensare a bersagli migliori di un cinghiale selvatico.

6. Il veganismo non è una “scelta di consumo” della classe media

Potrebbe sembrare banale, ma per molti “vegani etici”, il veganismo è davvero una filosofia piuttosto che una semplice scelta alimentare. Sfidando il modo in cui pensiamo gli animali come prodotti e come produttori, per il nostro piacere, mettendo in discussione la “necessità” o l’inevitabilità del consumo di animali, e variare la nostra dieta al di là delle fonti animali è solo una parte di ciò, ma ci sono molti modi per sovvertire le nostre relazioni con gli altri animali – dal combattere la cultura dell’allevamento di animali da compagnia, al compiere azioni di liberazione e sabotaggio. In fatti, una definizione di veganismo coniata dal co-fondatore della Vegan Society Donald Watson, era la nozione che gli animali dovrebbero semplicemente essere liberi dallo sfruttamento e dalla crudeltà. Questo toglie un po’ di enfasi alle scelte di consumo, per quanto preferite dai capitalisti verdi e dai progressisti. Troppo spesso le critiche si concentrano sui negozi alla moda di cupcake vegan o stravaganti formaggi finti, mettendo genericamente tutto il veganismo sullo stesso piano del consumismo etico superficiale o di una passeggera moda borghese.

Ma dove sembra che ci sia un mercato, possiamo sempre aspettarci alcune aziende che se ne approfittano per fare soldi (ad esempio viene in mente la recente fregatura di H&M dell’uniforme Unità di Protezione delle Donne curda). È anche falso sostenere che avere un’alimentazione vegetale è un “privilegio di classe”, se qualsiasi cosa è più economico se non preferisci carne finta e sostituti dei latticini. Il paradosso di queste affermazioni è che il movimento per i diritti degli animali e di liberazione animale nel Regno Unito è composto prevalentemente dalla classe operaia e meno dagli accademici rispetto ad altri importanti movimenti, di cui ho avuto esperienza, che riguardano singoli argomenti attualmente presenti nel Regno Unito. Le critiche al veganismo, basate sulla classe, da parte dei femministi con dottorati di ricerca dice di più su loro stessi e su dove passano il loro tempo rispetto a qualsiasi altra cosa.

Ovviamente ci sono alcune persone che non possono evitare di consumare animali perché le condizioni non lo permettono (ad esempio indigenza, certe malattie, migranti in transito, persone che abitano nel deserto… vi siete fatti un’idea); il punto è di fare ciò che possiamo perché perlomeno rifiutiamo lo specismo come dovremmo rifiutare ogni altro sistema di dominio. Sfortunatamente, ancora non ci sono nemmeno arrivati.

I tentativi di costruire un modo di vivere etico sotto il capitalismo e lo stato inevitabilmente tende a sembrare vuoto. Quindi qual è il punto del cambiare adesso le nostre pratiche individuali? Bene, a parte il problema ovvio del fatto che un’insurrezione di massa sembra ancora una possibilità distante, la coerenza nelle nostre idee e nelle nostre azioni ci da vite per cui vale la pena combattere. L’esistenza di relazioni basate sull’amore, sulla solidarietà e sul rispetto ci risparmia dallo squallore inesorabile della vita sotto il capitalismo e ci costringe ad attaccare i sistemi che li minacciano. Senza gli stimolanti esempi dei miei compagni in tutto il mondo sarei tentato dalla rassegnazione totale. Sfidare noi stessi e gli uni gli altri a mettere in discussione il dominio in tutte le sue forme accresce quell’affinità e distruggerebbe l’isolamento. L’anarchia non può essere rimandata all’infinito; a qualsiasi estensione possibile deve essere vissuta nel presente.

Se rispettare la vita non umana è un insignificante “stile di vita” come alcuni insinuano, allora dovremmo vedere il fatto di trattare i nostri compagni con rispetto (ad esempio non abusando di loro) nella stessa luce. Non mi faccio illusioni sulla capacità del veganismo di creare un cambiamento rivoluzionario, ma questo è vero per tutte le “scelte di stile di vita”: non possiamo solo accontentarci di cambiare il modo in cui viviamo e in cui ci trattiamo gli uni con gli altri – noi abbiamo sempre bisogno di combinare questo con l’attacco alle strutture del potere.

7. Il veganismo non è “imperialismo culturale”

I principi fondamentali che stanno alla base del veganismo non sono affatto “occidentali” (nel senso di un prodotto dell’illuminismo che si ritiene abbia avuto origine in Europa occidentale); semmai, dato che l’espropriazione capitalista della terra per prima creò scompiglio in quella parte del mondo, è vero esattamente l’opposto. Attraverso una stretta relazione con piante e animali, spesso amplificata da credenze animiste, molti popoli indigeni mantengono relazioni più sane con gli animali che li circondano, al punto dell’esagerazione e degli stereotipi idealizzati. Il fatto che, nel diciannovesimo secolo, alcuni illustri progressisti anglofoni iniziarono a parlare in modo chiaro di benessere animale non da all’Occidente il monopolio sul rispetto della vita animale.Infatti, alcuni dei discorsi in cui questi erano inserirti (in particolare, alla ricerca di una base scientifica per il benessere animale), erano più problematici delle pratiche dei popoli indigeni che per il proprio cibo si dedicavano in primo luogo alla caccia, ma non hanno mai cercato di schiavizzare gli animali.

Ciò nonostante ci sono state alcune campagne apertamente razziste dall’organizzazione benefica PETA, o imperialiste – e francamente ridicole – concetti come la “Settimana Mondiale per l’Abolizione della Carne”. Ma proprio come l’esistenza delle organizzazioni benefiche femministe proggressiste fa sì che pochi di noi rigettano totalmente il femminismo, ciò difficilmente serve da base per le affermazioni secondo cui il veganismo sarebbe di per sé, occidentale o imperialista. Un atteggiamento come questo significa anche trattare con condiscendenza e disprezzare i popoli e le culture che evitano la carne e i latticini, per la maggior parte dell’anno o completamente.

Infine, l’allevamento di animali va di pari passo con i continui espropri delle persone dalle terre. Ci servono grandi quantità di terreno per la produzione dei cibi di origine animale; ciò è vero sia per gli animali “allevati all’aperto” che brucano sui pascoli sia per quelli che mangiano mangine nelle cupe industrie di animali. Al contrario, molte più persone potrebbero essere mantenute su un dato pezzo di terra con una dieta vegetale piuttosto che con il bestiame, che consuma anche molta più acqua. In Sud America il land grabbing che deriva dall’allevamento di bovini è stato il principale fattore della perdita di terreni dei poveri e della distruzione delle terre e delle culture dei popoli indigeni. I terreni coltivabili sono sia scarsi che mal distribuiti; abbiamo bisogno di apportare grandi cambiamenti nel nostro rapporto con questi se dobbiamo fare i conti con enormi aumenti della popolazione pur resistendo a pratiche immorali come l’espansione dei programmi di sterilizzazione degli umani o gravi incursioni in ciò che rimane nelle sacche di natura selvatica.

8. Gli appetiti carnivori significano ecocidio

L’allevamento di animali è sinonimo di perdità dell’habit per gli animali selvatici e la precipitazione del cambiamento climatico. Le foreste mondiali, per esempio, sono state all’incirca dimezzate negli ultimi 30 anni. L’agricoltura animale è stata la causa primaria di questo, specialmente in regioni come l’Amazzonia, che è una fonte di ricca biodiversità e della produzione mondiale di circa il 20% dell’ossigeno. Come anarchici dobbiamo smettere di sostenere l’allevamento di altri esseri viventi e la riproduzione di rapporti distruttivi con i terreni – non solo come fine in sé, ma come una tattica tra molte nella lotta contro l’impoverimento della Terra.

In un mondo oltre il capitalismo, né l’allevamento di animali né la caccia saranno mezzi di sopravvivenza attuabili su larga scala. Il continuo allevamento di animali, implicazioni etiche a parte, sarà impossibile per molte popolazioni a causa dell’intenso bisogno di terra e acqua che comporta. La fantasia romantica del cacciatore dei primitivisti millenari, all’apparenza più etica, fa riferimento a un’era in cui la terra era ricoperta di foreste lussureggianti e l’umano era un tutt’uno con l’animale. Sfortunatamente il paesaggio post-industriale con cui saremo lasciati è probabile che sarà molto differente dalle foreste e dalle steppe in cui vagavamo prima della crescita della civilizzazione. Quel poco che resterà della fauna selvatica sarà relegata ai margini e senza dubbio minacciata di estinzione dai cacciatori umani. Sebbene le abilità nella caccia possono essere utili per gli individui nelle emergenze, non è una soluzione collettiva e alla fine sarà un comportamento suicida se la vediamo per quello che è.

 

FONTE: 8 reasons why meat-eating anarchists need a kick up their anthropocentric arses


Contagio Antispecista: appello contro la mercificazione degli ideali di liberazione

Riceviamo e pubblichiamo l’appello di Contagio Antispecista, contro il capitalismo vegan e la mercificazione dell’antispecismo

Capitalismo vegan e mercificazione

Volantino formato A5

“Contagio Antispecista è una piattaforma di scambio, dialogo e approfondimento sulle tematiche legate all’antispecismo nata dal desiderio e dalla necessità di contrastare l’opera di mercificazione condotta dal sistema capitalista e consumista ai danni delle istanze di liberazione.
Una lotta che quotidianamente viene svuotata di ogni suo valore, ridotta a business e omologata in quello stesso sistema antropocentrico che veganismo e antispecismo si propongono di contrastare.
Da questo blog vuole partire un appello alla mobilitazione rivolto a tutte quelle realtà che sostengono e promuovono l’antispecismo basato sui valori di antifascismo (antirazzismo, antisessismo, anti-omotransfobia, anti che non delega la lotta, non riconosce e rifiuta ogni dialogo con le istituzioni, e che si pone come critica e opposizione radicale a capitalismo e consumismo, espressioni del sistema antropocentrico e quindi specista.
Contagio Antispecista non è un gruppo, non è una persona, è un luogo dove poter caricare e reperire materiale utile a promuovere, sostenere e difendere i valori dell’antispecismo, troppo spesso svenduti anche da chi milita nell’ambiente (singole persone, gruppi e associazioni che si spacciano per antispeciste), ma che hanno fatto degli ideali di liberazione il proprio business personale o uno strumento per facili protagonismi.
Questo blog si pone l’obiettivo di mettere chiarezza in un ambiente troppo spesso preda di chi vuole usare le istanze antispeciste per fini personali, siano essi economici o politici, alimentando un sistema che punta all’omologazione e alla conseguente perdita dei valori che muovono la lotta per la liberazione animale, umana, della Terra.”

Fonte: Contagio Antispecista