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Capitalismo vegan e infiltrazioni fasciste

Riceviamo e pubblichiamo questo interessante articolo di Earth Riot

Il consumatore rappresenta l’ultimo anello di quella catena di sfruttamento che l’industria stringe attorno al Pianeta, da un lato anch’egli vittima delle scelte di mercato che gli vengono imposte, dall’altro attore protagonista che può tracciare la direzione che il mercato stesso prende.

Schiavo del sistema o complice inconsapevole, il consumatore riveste ugualmente un ruolo chiave in quelle dinamiche di mercato che egli stesso genera attraverso scelte quotidiane più o meno consapevoli, determinando quindi la domanda di un dato prodotto, consegnando il suo personale benestare all’azienda di turno, che può così continuare a condurre crimini ai danni dell’ambiente, degli animali e delle persone nel nome del capitalismo.

A finanziare questi crimini e ad alimentare un ciclo produttivo che sta portando la Terra al collasso, esaurendone le risorse naturali, è quindi il consumatore stesso, una fascia nella quale rientrano ovviamente anche i vegani.

Il vegano medio ultimamente sembra aver perso di vista i principi e gli obiettivi che contraddistinguono questo ideale di vita, oggi invece più intento nell’offrire pubblicità gratuita alle infinite linee di cibi vegan che stanno invadendo il mercato cavalcando l’onda del capitalismo “verde”, alla ricerca di nuove fasce di consumatori da sfruttare.

Il veganismo non nasce come mera scelta alimentare, come dieta per mantenersi in forma né tanto meno come moda da svendere al mercato che puntualmente arriva a mercificare ogni tipo di lotta svuotandola di fatto di ogni ideale e valore.

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Il veganismo è un atto politico contro quelle dinamiche di sfruttamento che contraddistinguono il sistema specista, ma l’obiettivo non deve essere quello di “veganizzare” l’industria quanto di prendervi le distanze, rifiutando quei processi di produzione alienanti che generano ugualmente un impatto ambientale e limitano la libertà di animali e persone.

Ma sopratutto il veganismo deve essere visto e assunto come atto disinteressato volto esclusivamente a perseguire la libertà di chi quotidianamente viene schiavizzato, giustiziato e ridotto a oggetto di consumo.

L’ambiente vegan in quest’ultimo periodo invece sta perdendo completamente di vista gli obiettivi primari di questa ideologia, fornendo al mercato terreno fertile nel quale far proliferare una nuova generazione di prodotti e di fatto accettando di essere assorbito in quel calderone di consumismo e capitalismo che offre ad aziende e multinazionali nuove risorse per poter condurre indisturbate le loro opere di sfruttamento.

L’attenzione pare essersi spostata sulla quantità di prodotti vegan messi a disposizione dal mercato per facilitare la vita di chi ha intrapreso questo percorso, senza alcun tipo di riflessione o spunto critico in merito a ciò che questo comporta, convinti che sia sufficiente questo per giungere alla liberazione animale o che comunque questa sia la strada giusta da percorrere.

In questo panorama di mercificazione della lotta e di smantellamento di ogni ideale, capita di assistere a scene di giubilo quando al supermercato di turno viene introdotto il reparto vegan, ignorando che, come giustamente sottolineato da Desirée di Agripunk nel corso di una conferenza, “il reparto vegan nei supermercati c’è sempre stato”. Frutta, verdura, legumi e cereali sono sempre stati venduti nei luoghi della grande distribuzione, ma ora pare che il vegano abbia bisogno di un reparto apposito che legittimi la sua esistenza, quando invece ciò a cui dovrebbe portare questa scelta è una ricerca di prodotti semplici, liberi da imballaggi che inquinano l’ambiente dove gli stessi animali vivono, preoccupandosi di rispettare criteri elementari come il chilometro zero e la stagionalità.

Il veganismo dovrebbe essere contraddistinto dal desiderio di recuperare aree verdi perdute dove far sorgere orti liberi che possano garantire cibo per tutt* e non nuovi casermoni di cemento a soffocare un Pianeta già saturo nei quali rinchiudersi per farsi mettere in fila dal mercato, continuando di fatto a essere schiavi e finanziatori del sistema. La politica dei piccoli passi e la favola degli input da far pervenire alle varie aziende è fallimentare e ci ha condotto esattamente dove ci troviamo ora, e serve solo a chi la causa la vuole sfruttare per i propri guadagni personali. Come nel caso della linea Io-Veg, che ultimamente pare aver contagiato diversi vegan alla ricerca spasmodica delle offerte che Esselunga e Carrefour propongono su questi prodotti. La linea di prodotti vegan in questione appartiene all’ex Ministra Michela Vittoria Brambilla, che già in passato ha dimostrato la sua bravura nello sfruttare situazioni che gli potessero generare un profitto economico o voti a livello politico. Acquistare prodotti appartenenti alla linea Io-Veg non solo significa accettare di alimentare quel sistema votato al consumismo e al capitalismo, ma anche finanziare esponenti fascisti che hanno contribuito alle infiltrazioni all’interno del movimento per la liberazione animale. Un movimento, quello per la liberazione animale, umana, della Terra, che l’antispecismo rappresenta e di cui il veganismo ne è parte integrante, un parte che sta subendo un attacco sia dal mercato in quell’opera di mercificazione degli ideali che da quelle che non possono neanche più definirsi infiltrazioni, ma costituzione di movimenti paralleli basati però su principi che rappresentano l’esatto opposto degli ideali antispecisti. Questo fenomeno, oltre ad alimentare un clima di confusione, pone anche di fronte alla necessità di condurre due lotte parallele: da un lato quella per il risveglio delle coscienze che possa portare alla liberazione totale, dall’altro quella contro chi porta avanti un discorso di liberazione animale, ma promuovendo al contempo idee razziste, sessiste, fasciste e omofobe.

 Nessun* è veramente liber* se non siamo liber* tutt*

 

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La favola della carne felice

Pubblichiamo il seguente articolo di Earth Riot nella speranza che possa far riflettere sul fatto che non può esistere una “macellazione etica” e non ha senso parlare di “benessere animale” in riferimento alla schiavitù e allo sfruttamento degli animali

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Apri la bocca, chiudi gli occhi… voltati mentre li uccidiamo!

Manca solo quest’ultima parte al video promosso dall’associazione Compassion in World Farming Italia in merito alla campagna “Non nel mio piatto” lanciata di recente e mirata a sensibilizzare il consumatore sulle condizioni degli animali negli allevamenti intensivi attraverso un lavoro di ipocrisia e la strumentalizzazione di termini privati di ogni significato e valore, come “sostenibilità” e “benessere animale”.
L’associazione C.I.W.F., fondata nel 1967 da un allevatore di mucche da latte, è nata al preciso scopo di dare la possibilità agli allevatori di autoregolarsi senza dover dare spiegazioni sulle tecniche impiegate negli allevamenti animali.
In questi ultimi anni C.I.W.F. sta conducendo un lavoro di disinformazione, promuovendo concetti quali “carne felice” o “benessere animale” nel tentativo di far credere al consumatore che queste siano pratiche realmente a favore della libertà e della vita degli animali.
Ma in realtà si tratta solamente dell’ennesimo organo volto a certificare e tutelare gli interessi di chi produce a discapito di chi diventa prodotto, alimentando quel meccanismo che nasconde al consumatore la verità sulla produzione di carne e derivati animali.
Un aspetto confermato dalla lista delle aziende premiate tra le quali compaiono nomi illustri come Amadori, Cremonini, Barilla, Coca Cola, McDonald’s, KFC, Burger King e molti altri, che dello sfruttamento animale, ambientale e sociale hanno fatto il loro personale marchio di fabbrica.
Sulla pagina del sito di Compassion in World Farming Italia, dedicata alla campagna “Non nel mio piatto”, viene utilizzato un approccio e terminologie che si accostano molto a quelle utilizzate da chi lotta per la liberazione animale, quasi volessero convincere gli stessi attivisti a unirsi a ciò che loro identificano come “movimento”.
Per convincere il lettore a unirsi alla loro campagna utilizzano strategicamente le stesse motivazioni sulle quali l’attivista antispecista punta il riflettore da decenni: deforestazione, impatto ambientale, fame nel mondo, aggiungendovi la salute del consumatore.
La campagna e l’associazione C.I.W.F. però non portano avanti un pensiero animalista né tanto meno antispecista, e questo si può facilmente intuire già dalla riga del loro sito quando domandano al consumatore, e forse anche a loro stessi, “sappiamo cosa mangiamo?”.
Un’espressione specista, in quanto identifica l’animale macellato per la produzione di carne e derivati esclusivamente come bene di consumo, i cosiddetti “animali da reddito”, mentre la domanda che tutti dovremmo porci è: “sai chi mangi?”.
Questo approccio è funzionale a rafforzare il concetto di “delega” che porta il consumatore a condurre i propri acquisti senza alcun senso critico, ignorando o volendo ignorare la sofferenza di un animale destinato ad essere ucciso per le tasche dei produttori e la pancia di chi compra.
Sempre sul loro sito si fa leva su come la sofferenza animale sia una catastrofe per noi e per il Pianeta ma non per l’animale stesso, a sottolineare che il solo obiettivo di C.I.W.F. è quello di spostare i consumi di carne e derivati animali dagli allevamenti intensivi a quelli secondo loro maggiormente sostenibili, ma che comunque prevedono il sacrificio animale, facendo credere al consumatore che esista la “carne felice”.
Spiegare quali siano i reali interessi di questa associazione fondata da allevatori del resto è molto semplice, e possiamo farlo attraverso le parole di Nino Florenzano, una delle persone ad aver collaborato alla realizzazione della campagna, che sul suo profilo Facebook lo scorso 21 gennaio ha risposto a una domanda scrivendo:

Il problema non è tanto il fatto che finiscano nei nostri piatti, ma le sofferenze inutili cui sono sottoposti in vita.

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In sintesi, continuiamo pure a ucciderli per il profitto e il consumismo, ciò che conta è che prima ricevano tante carezze.
Il concetto di “benessere animale” sostenuto e diffuso da C.I.W.F. come da Coop, Amadori, Slow Food etc., è privo di ogni significato e punta solo a salvare una produzione che per queste aziende è vitale, spingendo sul tasto che l’animale è contento di esser macellato se prima ha potuto condurre una vita, nonvita, potendo vedere un po’ di più la luce del sole rispetto a chi viene rinchiuso in un allevamento intensivo.
Ma sempre di schiavitù si tratta, di una nonvita al servizio dell’uomo, privati di ogni soggettività nell’attesa di venire sacrificati.
Il video realizzato da C.I.W.F. per promuovere la campagna “Non nel mio piatto” non è diverso da un qualsiasi spot pubblicitario, nel quale dichiarano che “nessuno ti mostra la verità degli allevamenti intensivi”, quasi volendo prendersene il merito, ma senza mostrare
l’atto dell’uccisione, e ignorando che quella verità è stata svelata ormai da anni grazie alle indagini svolte da molti gruppi animalisti.
Il video poi si chiude con la frase “battiamoci insieme per un’alternativa etica”, e per i guadagni personali di C.I.W.F. aggiungiamo noi, considerando che i primi e unici beneficiari di uno spostamento dei consumi sarebbero loro stessi.
Parlare di “alternativa etica” è sbagliato; è necessario piuttosto sviluppare un pensiero nonviolento che rifiuti la schiavitù e il sacrificio degli animali, alimentando il rispetto verso chi dovrebbe poter vivere il libertà su di un Pianeta che la offre a tutt*, senza distinzioni di specie.
Il solo concetto di “benessere animale” accettabile è quello che prevede la liberazione degli stessi, un processo che non si può ottenere a piccoli passi perché è a causa di questi piccoli passi e del “sempre meglio di niente” che ora esistono associazioni come C.I.W.F., che tentano di mischiarsi con l’animalismo e l’antispecismo, svuotando di ogni valore la lotta che molti tentano di condurre.
Solo per il fatto di essere utilizzato da aziende simbolo del capitalismo, del consumismo, dello sfruttamento globalizzato, il concetto di “benessere animale” perde di ogni significato, diventando l’ennesima mossa di marketing volta al non perdere vecchi consumatori e all’accaparramento di nuovi.
Il “benessere animale”, come realmente deve essere concepito, esiste, ma al di fuori dei circuiti appartenenti al dio denaro, e prende la definizione più consona di “liberazione animale”. Quella liberazione animale condotta nel lato pratico da rifugi-santuari, come ad esempio Agripunk e Ippoasi, che si preoccupano di offrire una seconda vita a chi è stato salvato dal macello, tutelando gli animali non umani in un ambiente protetto per impedire che cadano nuovamente vittime del sistema specista. Nell’attesa di una Terra resa nuovamente libera da cemento, industrie e devastazione, e da quelle forme di dominio e prevaricazione figlie di un pensiero antropocentrico che determina chi è degno di vivere in libertà e chi invece in attesa di essere giustiziato.
Perché il quesito che tutt* dovrebbero porsi prima o dopo non è cosa mangiamo, e neanche chi mangiamo, ma piuttosto: come vivrebbero gli animali se non fossero schiavi del genere umano?